WHISKY REVOLUTION FESTIVAL TALK – Capitolo 03

A svegliarsi presto in montagna è più facile. Così capita di vedere un signore barbuto passeggiare sulla ciclabile nell’aria pulita, mormorando come quel millenarista in Non ci resta che piangere che diceva a Troisi: “Ricordati che devi morire”.
In realtà la scena è molto meno tenebrosa di quanto sembri: è solo Zucchetti che ripassa le domande per la Talk, da secchione qual è. Davide gli ha chiesto mesi fa di moderare il rendez vous e nonostante la naturale ritrosia lui ha risposto obbedisco, sarà per la barba garibaldina, sarà perché gli piace ripetere che la vita è troppo breve per parlare solo di Salvini e Conte e ogni tanto vale la pena discutere anche di cose più piacevoli.
Così dopo colazione, quando dalle camere e dai bar arrivano in piccoli rivoli gli ospiti, nella mansarda del ristorante Flurin tutto è pronto, compreso il moderatore. Sui tavoli, disposti a ferro di cavallo, cesti di frutta e bottiglie, come in una natura morta caravaggesca di ispirazione scozzese. Ogni ospite ha portato un whisky che lo rappresenti: disposte davanti alle loro postazioni, sembrano le bandierine dei delegati all’Onu.
Ricordare il perché sono tutti qui – oltre al piacere dell’aria pulita e di qualche dram in compagnia – è cosa buona e utile. Si parte da una considerazione: com’è che in Italia, ovunque si parli di whisky, di fatto è sempre la stessa compagnia di appassionati a presentarsi? Non sarà che sta diventando argomento di discussione un po’ elitario, passatempo di una relativamente piccola accolita di nerd che conoscono a memoria tutte gli imbottigliamenti indipendenti di Springbank e passano ore a classificare i single cask degli anni Settanta in ordine di torbatura?
Fuor di metafora: non è che a forza di parlare tra appassionati si sta perdendo il contatto con quell’animale mitologico e raro che è il semplice bevitore?
Invece che lasciare ai posteri l’ardua sentenza, ecco allora l’idea di una tavola rotonda per trovare una risposta. Anche se a dire il vero bisognerebbe definirla ovale, perché il centro è appunto fuori, in quel mercato italiano di consumatori poco consapevoli, che non conoscono la differenza fra single malt e blended o distillazione continua e discontinua. E – a dire l’amara verità – non sono neppure interessati, perché spesso si fermano a quel che trovano al supermercato e sono contenti così.
Sono costoro figli di un dram minore, da disprezzare perché vanno pazzi per il Ballantine’s? Sono “compagni che sbagliano”?
Sono i professionisti invece dei fighetti snob con la puzza sotto il naso?
Vogliamo fare a botte?
Meglio di no. Meglio provare a gettare un ponte levatoio per superare il fossato fra i due mondi, per far scendere di un gradino i “connoisseurs” e far salire di un gradino la consapevolezza del pubblico?
D’altronde anche i linguisti dell’Accademia della Crusca, i custodi dell’ortodossia della grammatica e del vocabolario, non possono ignorare come parlano davvero gli italiani, senza per forza accettare obbrobri tipo “scendimi il cane che lo piscio”.
Giusto dunque che i super esperti si chiudano in conclave per aprirsi a quel che bevono davvero i consumatori.

È Valentino Zagatti a inaugurare la discussione, ricordando come la sua immensa collezione, talmente unica da essere finita in un museo in Olanda, iniziò da una bottiglia di Stock ’84 da 1.400 lire. Pian piano decise di dedicarsi solo al whisky e i soldi risparmiati smettendo di fumare furono investiti in blended come Johnnie Walker o J&B. Erano le fondamenta, solide e soprattutto accessibili, su cui costruire una collezione capolavoro, con migliaia di single malt scozzesi introvabili. La prova provata che l’evoluzionismo funziona anche nel whisky: si parte dai primati, le bottiglie più comuni e i malti di 5 o 7 anni, per arrivare all’homo sapiens sapiens, le chicche più rare.

Che i due mondi – della qualità e del consumo quotidiano – non funzionino a compartimenti stagni, lo sa bene Franco Gasparri. Diageo è la più grande realtà mondiale dello Scotch, essendo proprietaria di 27 distillerie di single malt (oltre ai marchi di distillerie chiuse come Port Ellen e Brora). Qualcuno la potrà anche guardare con sospetto perché le logiche delle multinazionali non a tutti piacciono, ma Oban, Talisker e Lagavulin sugli scaffali dell’Esselunga sono stati per molti il portale d’ingresso all’universo whisky.
“Il supermercato – spiega Franco – è nato come sistema di vendita per raggiungere tutti, riunire tutti gli espositori in un unico luogo è stato un’innovazione. Dunque se il consumatore di single malt trova in grande distribuzione per esempio i Classic Malts Diageo, di sicuro è spinto a provarli. Esplora, assaggia cose diverse. La creazione di consumatori competenti passa sempre dall’accesso a diversi prodotti”.

È un po’ la scuola dell’obbligo per i bevitori di whisky. Le basi. Perché chi inizia non ha un gusto “educato”. Già, il gusto. Questione culturale ancor prima che soggettiva. Nel mondo oltre il 90% dei consumi di whisky è rappresentato dai blended, più facili e immediati, poca complessità e tanta bevibilità. Se in Italia la quota di single malt è molto più alta (oltre il 25%) il merito è di una generazione di pionieri che tra gli anni ’60 e ’70 si inventò il mestiere dell’imbottigliatore indipendente, andando in Scozia ad acquistare botti di single malt che nessuno cercava. Tra questi c’era Nadi Fiori: “Le mode cambiano – racconta -: a quei tempi il Chivas Regal era un must, icona di lusso. Oggi le cose non sono più così perché nel frattempo l’offerta è aumentata. Ogni ristoratore, ogni enoteca doveva avere qualcosa di particolare da offrire. Per questo gli imbottigliamenti indipendenti hanno avuto successo: hanno risposto a una richiesta di qualità, con gradazioni più alte degli scozzesi, che amano risparmiare sulle accise…”.

L’assise si scalda, si tocca uno dei tasti dolenti: il rapporto tra qualità e prezzo. Max Righi ha sempre seguito una filosofia chiara: “Imbottiglio soltanto quel che mi piace, non potrei vendere cose che non apprezzo”. Però ora la situazione generale sta cambiando. Non sono più gli anni in cui in distilleria si trovavano cataste di barili a prezzi stracciati, ma non sono più neppure gli anni dei prezzi ragionevolmente alti. “Oggi la speculazione ha raggiunto livelli imbarazzanti – spiega -, i milionari asiatici comprano tutto a qualsiasi costo. Imbottigliare oggi richiede investimenti mostruosi e un mercato ricettivo. Bisogna trovare sempre qualcosa di particolare, ma se i barili costano tanto anche le bottiglie aumentano di prezzo. Così il mercato si restringe e si rischia di andare in grave perdita”.

Altro tema interessante, la ricerca della novità, della nicchia, del mai provato. La curiosità umana è insaziabile, quella italiana per l’enogastronomia è addirittura leggendaria: “Siamo un popolo di curiosi”, sorride Max. Lucas Ebensperger lo sa bene, perché l’idea di creare il primo whisky italiano va proprio in questa direzione: la particolarità. Che ovviamente – ritornando all’argomento centrale della Talk – non segue gli stessi binari del gusto di massa: “Quando abbiamo iniziato – ricorda – sapevamo che Puni non sarebbe andato nella grande distribuzione, ma in enoteca e in gran parte all’estero. La nostra sfida non è agli altri whisky, ma al mondo del gin e del rum, che vincono perché riescono a mantenere dei prezzi più bassi”.

“Certo è più facile avere in magazzino dei fusti di birra piuttosto che del whisky”, interviene Claudio Riva. “Sul whisky in Italia vince ancora il possesso, ma le cose stanno cambiando”. Il suo Whisky Club Italia macina numeri incredibili e probabilmente sulla scena nazionale è tra le realtà che più cercano di ridurre il famoso fossato fra esperti e consumatori. “In 5 anni 2.200 persone hanno frequentato il corso in tre serate per avere gli strumenti essenziali – spiega -. Sono soprattutto under 35 con un livello già alto di conoscenza e mossi dalla curiosità. Ma non basta, i bevitori di whisky in Italia sono un milione: noi ne abbiamo distillati un po’, ma la sfida è allargare la platea”.

Un milione. Non di posti di lavoro, ma di bevitori occasionali che potenzialmente potrebbero diventare appassionati. Si dice che in questo processo la mixology possa essere la chiave di volta, anche se Dario Cerantola ci va coi piedi di piombo: “Il gin tonic è facile, il whisky va trattato con tecnica e conoscenza”. Al Blend di Castelfranco ci sono entrambe, ma per Dario “la risposta non è il whisky bar, ma il whisky festival: il whisky bar è un ristorante stellato, ma oggi servono di più eventi pop e divertenti. Il Whisky Revolution è nato per questo”.
Tutto parte da una considerazione: “In Italia abbiamo la cultura del cibo e del vino, per questo non sono d’accordo sul fatto che il supermercato sia la scuola dell’obbligo del gusto. Il gusto va aiutato: il whisky spaventa quando è comunicato con tecnicismi e snobismi e il rischio è di lasciare il consumatore in balia di se stesso e di farlo allontanare. Magari verso il rum, che è più immediato”.

Chi ha davvero il termometro di quel che compra e cerca la gente sono però i ragazzi del web, ovvero chi vende o recensisce su Internet. Perché oggi è la Rete il vero punto di approdo del consumatore, “perché i negozi fisici sono in crisi. Perfino a Londra vedi le bottiglie negli showroom e poi le compri sui siti”. Diego Malaspina ha dei dati molto chiari: “Su whiskyitaly si vende per l’80% single malt e soprattutto torbato, mentre i giapponesi sono in calo”. “I giapponesi sono marketing puro”, sbuffa Dario. Tornando al torbato, anche le statistiche dei visitatori del Bevitore Raffinato sono concordi. E dicono anche qualcosa di più: “Il Lagavulin 16 è il più cliccato – spiega Giuseppe Napolitano -: un prodotto torbato e che si trova al supermercato”. “D’altronde la gente cerca quel che già conosce, è difficile che compri cose a scatola chiusa”, gli fa eco Diego. “Esatto, anche i blog sono utilizzati così – riprende Giuseppe -: diventano dei diari di quel che è accessibile, le recensioni più lette sono quelle delle bottiglie più facilmente reperibili”.

E dunque, citando involontariamente Lenin, che fare? Rassegnarsi alla distanza? Giammai. Bisogna arare il terreno, occorre tempo e cultura. E magari un passo in avanti. Nadi torna sull’argomento “possesso”: il collezionismo che ha di fatto congelato eserciti di bottiglie mai aperte: “Molti non aprono e non bevono, in questo Valentino è stato unico: casa sua è il tempio dell’ospitalità, perché è fra i pochi che sorseggiano in compagnia”. “La casa di Valentino è la vera trattoria del whisky, il porto a cui tutti sognano di attraccare”, sorride Max Righi. La convivialità è un’altra arma potentissima e Valentino lo sa bene, tanto che ha preferito il whisky alla fisarmonica “perché la fisarmonica si suona da soli, il whisky si beve in compagnia. Sempre una lacrima, eh!”.

È tempo di conclusioni e di cancellare un po’ di stereotipi. “Per esempio – aggiunge Valentino – l’età del whisky non è sinonimo di qualità”. Max annuisce: “Ci sono dei blended senza età degli anni ‘60 che hanno una struttura eccezionale”. Eppure, cosa che ci rimproverano sempre gli scozzesi, noi italiani beviamo con gli occhi e i pregiudizi più che con la bocca. Ovvero ci facciamo influenzare dai marchi e dai preconcetti: “Siamo il Paese della moda, amiamo i brand perché ci raccontano una storia e rappresentano uno status”, spiega Franco. Ma bere con gli occhi significa anche curare il packaging. Gli esperti tendono a sminuire le confezioni (per gli scozzesi il whisky andrebbe versato dalle taniche, perché conta solo il prodotto), ma chi compra vuole anche qualcosa di esteticamente gradevole. Lo sanno bene a Puni, dove le bottiglie hanno vinto riconoscimenti internazionali: “Dovevamo attirare l’attenzione, non c’è nulla di male nel curare l’estetica delle bottiglie”, come testimoniano anche le splendide etichette di Max Righi.

Non c’è nulla di male neppure nella passione per la torba, gusto “eccentrico” rispetto alla nostra tradizione culinaria. “Però la torba è molto cambiata – spiega Riva -: non ci sono più note di cereale tostato, ma proprio petrolio e gas combusto. I torbati oggi sono pesanti ed eccessivi, l’italiano medio li riconosce e poi istintivamente li cerca”. Così come non c’è nulla di male (anzi, è un bene!) che finalmente si cominci a guardare anche al mercato femminile: “Su whiskyitaly il 30% degli acquisti è fatto da donne, ma per lo più sono regali”, spiega Diego. “Al contrario sta crescendo l’attenzione femminile per il rum”, aggiunge Giuseppe. Ma non c’è da cantare vittoria, secondo Claudio: “Anni fa si era arrivati a una presenza femminile del 35%. Ora se vedo una donna su 30 partecipanti è tanto. È come se si fossero avvicinate ma l’interesse non si sia consolidato”.

La questione, alla fine, è prettamente emotiva. Per colmare quel gap fra i pochi che bevono sciccherie e i tanti che si approcciano a prodotti di base ma non migliorano, occorre lavorare sul coinvolgimento. Incuriosire, raccontare, spiegare. “Il whisky va miscelato sì, ma con il divertimento, la leggerezza, i viaggi in Scozia, la musica”, propone Dario. Cambiargli i connotati, passare da distillato complesso per soli gentiluomini in tweed a spirito interessante e piacevole. Occorre tempo. Ma è Riva a chiudere con una previsione rosea: “Entro fine 2021 avremo oltre 200 distillerie artigianali in Italia. La grande esperienza con i birrifici ci aiuterà a dare vita a un movimento di craft distilling: sarà quello il ponte che avvicinerà il grande pubblico”.

Già, occorre tempo, perché la distanza ancora rimane. E a Talk finita, dei whisky “da supermercato” versati ai partecipanti tanti sono rimasti pieni.